Così ho visto
cambiare l'Islam
la memoria
BERNARDO VALLI
Stando alle sue (ed anche nostre, del tutto infondate) informazioni,
il grosso della Royale, così la Francia repubblicana chiama la marina
militare, stava per salpare dal porto di Tolone per unirsi al corpo di
spedizione in Algeria, insorto contro la politica rinunciataria del governo
di Parigi.
Sarebbe stato un formidabile colpo di scena. I più sensibili
erano gli inglesi, figli di un impero marinaro.
In quelle ore la Quarta Repubblica agonizzava sulle rive della Senna;
de Gaulle stava per ritornare al potere e fondare la Quinta Repubblica,
sotto la spinta degli insubordinati militari d'Algeria, decisi a non abbandonare
anche quel paese africano, dopo la tragica ritirata coloniale dall'Indocina.
La sconfitta di Dien Bien Phu aveva appena quattro anni. E due anni
prima l'esercito francese e quello britannico, lanciati nella spedizione
di Suez, per impedire la nazionalizzazione del Canale decisa dal colonnello
Gamal Abdel Nasser, si erano dovuti ritirare per ordine degli americani.
I militari non volevano altre umiliazioni. L'Algeria era per loro irrinunciabile.
Tutto avveniva però senza le manovre navali che noi aspettavamo
trepidanti al bar. In quel maggio ‘58 la flotta non si mosse da Tolone:
ma all'alba, mentre Guillaume vuotava i portacenere e chiudeva a chiave
le sue riserve di whisky e di Pastis, Randolph Churchill e altri colleghi
britannici partirono lo stesso per ispezionare la costa, dalla quale speravano
di avvistare per primi la nave ammiraglia ribelle.
Tante altre notti furono movimentate nell'albergo d'Algeri in riva
al mare. Il bancone del portiere e quello di Guillaume, il barman, servirono
più volte da riparo ad alcuni di noi. Capitava che si dovessero
evitare colpi che non ci erano indirizzati. Colpi del Fronte di Liberazione
Nazionale che si batteva per l'Algeria indipendente, o colpi dell'Oas,
l'organizzazione segreta dei coloni che volevano conservare l'Algeria francese.
Come sulla spiaggia quando arrivano sporadiche onde lunghe, l'albergo era
ogni tanto lambito da effimere minacce provenienti dall'esterno, dove era
in corso la guerra che si sarebbe conclusa nel ‘62 con la nascita di nuovo
Stato nell'Africa settentrionale.
* * *
Là, un cospicuo numero d'anni fa, ho avuto la mia prima esperienza
in terra musulmana. Per la verità di brevi incursioni nei Paesi
arabi ne avevo già compiute. Ma l'Algeria era un'altra cosa. Era
il teatro di una guerra coloniale. L'ultima. Riportati a oggi, il linguaggio
e i comportamenti di allora possono risultare tremendamente datati. Persino
un po' patetici. Attorno a noi naufragava nel sangue (si parlò più
tardi di un milione di morti in 8 anni) un impero coloniale che viveva
tempi supplementari, oltre quelli consentiti dal calendario e dalla ragione:
tempi duri, con villaggi bruciati al napalm sul massiccio dell'Aurès;
torture inflitte negli scantinati di Algeri e di Orano; bombe che esplodevano
negli stadi, nei bar, nelle sale da ballo; e vani richiami ai diritti dell'uomo.
Tutti torturavano, massacravano, terrorizzavano, francesi e algerini:
ma per i primi, figli di Voltaire e di Rousseau, e con ancora nella memoria
le sevizie naziste nella Francia occupata durante la Seconda guerra mondiale,
la scelta della repressione non era esaltante. Per gli algerini era invece
la sofferta nascita della nazione.
Questa rievocazione non è un indugiare sui ricordi: a sollecitarla
è l'attualità, è il presente, è quel che accade
ai nostri giorni, in queste ore. All'origine c'è un interrogativo:
quale era lo spazio occupato dall'Islam, adesso tanto invadente, in quei
lontani avvenimenti? C'erano tracce di fanatismo religioso in quel conflitto?
Quando l'Islam è comparso "in prima persona" nel Maghreb o in Medio
Oriente?
* * *
Solidamente radicato nel Paese (dal VII secolo d.C.) l'Islam era rimasto
la sola "patria" per molti algerini dopo la conquista francese. Per oltre
130 anni era stato l'unico rifugio. Era l'ancoraggio indispensabile per
conservare la propria identità, per difendere l'unità morale
e sentimentale, per alimentare la resistenza alle influenze (a volte modernizzatrici)
e alle prepotenze (sempre umilianti) della società coloniale. La
tradizione con i suoi valori, anche i più intimi, come il rispetto
degli anziani, la solidarietà familiare, l'autorità del capo
famiglia, in sostanza la struttura patriarcale, si confondeva con la religione.
Ma il movimento indipendentista radicale, monopolizzato (dal ‘54 in poi)
dal Fronte di Liberazione Nazionale, traeva la sua forza non solo dalla
tradizione islamica, ma anche dall'ideologia socialista. I militanti algerini
ne avevano imparato i rudimenti nei contatti con la cultura politica francese;
se ne erano serviti per analizzare la loro situazione nella patria colonizzata;
ed anche per studiare modelli di organizzazione.
Nella dottrina del Fln, la parte dovuta all'influenza francese era
la più decifrabile per gli osservatori stranieri. Negli Anni ‘50
e ‘60, anni della decolonizzazione e delle ideologie, le rivoluzioni non
potevano essere soltanto nazionali. Quelle che si dichiaravano socialiste,
vagamente marxiste, erano preferite dai movimenti del Terzo Mondo. Avevano
il merito d'opporsi al capitalismo delle potenze coloniali, e di scardinare
i sistemi economici e sociali appena ereditati. Mancando imprenditori e
capitali privati indigeni, non compromessi col regime coloniale, lo statalismo
(il "socialismo") era una scelta quasi obbligata. Tra i dirigenti algerini
gli intellettuali non erano numerosi, anzi erano rari, e altrettanto rari
erano quelli di origine contadina, benché lo fosse la stragrande
maggioranza della popolazione.
I capi dell'insurrezione erano in generale più istruiti della
media, avevano spesso la licenza elementare, alcuni di loro erano stati
sottufficiali dell'esercito francese, prima durante la guerra in Italia
(nel ‘44 e ‘45) e poi in Indocina (nei primi Anni ‘50, quando avevano imparato
che la Francia, sconfitta a Dien Bien Phu, poteva soccombere davanti a
una guerriglia del Terzo Mondo). La scuola francese, che imponeva un'assimilazione
culturale sia pur limitata, li aveva convertiti alla critica e ad alcuni
principi fondamentali della libertà laica, assenti nella tradizione
musulmana prevalente in Algeria.
* * *
Di primo mattino andavo a volte in Kabilia. M'accodavo ai genieri francesi
che sminavano la strada di Tizi Ouzu e di Fort National. In quella regione
gli scioperi rivelavano la forza del Fln. I berberi partecipavano compatti.
Non era probabilmente facile disubbidire. Non c'era una bottega aperta.
Se riuscivi a farti servire un tè alla menta non potevi pagarlo.
Te l'offrivano, non accettavano soldi. Sarebbe stato un atto di crumiraggio
e poteva costare la vita. Ammiravo quella solidarietà, anche se
in certi casi obbligata. Giovane cronista mi sentivo testimone d'un avvenimento
eccezionale, la nascita d'una nazione; e anche di una rivoluzione alla
quale molti attribuivano un valore che andava ben al di là della
vicenda algerina.
Nella sinistra francese, alcuni pensavano che in Algeria sarebbe stato
realizzato quel che non era stato possibile realizzare in Europa alla fine
della Seconda guerra mondiale.
Fu significativo l'appoggio al Fln di non pochi ebrei algerini, appartenenti
a partiti di sinistra, o simpatizzanti. Alcuni intellettuali s'impegnarono
a fondo, "portarono le valige", ossia collaborarono concretamente con la
resistenza. Erano ebrei berberi (chiamati Mustaarazim) le cui famiglie
erano radicate da millenni nel paese. I loro antenati si erano mischiati
con le varie diaspore, provenienti dalla Palestina, in fuga dagli egiziani
e poi dai romani dell'imperatore Tito, all'epoca delle distruzioni del
tempio di Gerusalemme, o molto più tardi, nel XV secolo, dalla Spagna
dell'Inquisizione. Tra di loro c'erano anche quelli d'origine livornese,
o chiamati livornesi, arrivati assai più tardi, durante l'impero
Ottomano, come ebrei franchi, ossia con le prerogative degli altri europei,
protetti da un console e non sottoposti alla giustizia locale.
In seguito a una legge del 1870 (la legge Cremieux) tutti gli ebrei
algerini erano diventati francesi a pieno titolo; ed è in quanto
tali che poco meno di un secolo dopo quella legge la stragrande maggioranza
di loro, la quasi totalità, lasciò il paese precipitosamente,
al momento dell'indipendenza. Se si escludono i non pochi casi d'intellettuali
e militanti di sinistra impegnatisi in favore della resistenza algerina,
il destino degli ebrei si confuse con quello di un milione di "piedi neri"
(cosi erano chiamati i francesi dell'Africa del Nord) dei quali condividevano
in generale idee e timori. In quegli anni conobbi Jean Daniel, allora inviato
speciale del settimanale L'Express. La nostra amicizia risale a quell'epoca.
Nato in una famiglia ebrea di Blida, a sud di Algeri (ai limiti della
pianura della Mitidja e ai piedi delle prime montagne dell'Atlante) Jean
riusciva a essere leale verso le sue due patrie. Riconosceva e difendeva
il diritto all'indipendenza dell'Algeria richiamandosi ai principi e alla
cultura che lo legavano indissolubilmente alla Francia, per la quale s'era
battuto durante la guerra di liberazione dalla Germania nazista.
Quanto fossero laceranti le scelte lo dimostravano le perplessità
del suo amico Albert Camus. Camus era un "piede nero". Suo padre discendeva
da piccoli coloni francesi (arrivati per motivi economici, ma a volte anche
deportati dalla Francia per delitti comuni o per ragioni politiche, in
seguito a insurrezioni come quelle del 1848 o del 1870); sua madre era
invece spagnola e veniva da una famiglia d'operai agricoli, braccianti.
Era una madre adorata. Quando il figlio giocava con i ragazzi arabi per
le strade di Belcourt, un quartiere popolare d'Algeri, lei contribuiva
al bilancio familiare facendo lavori domestici in casa d'altri. Camus non
lo dimenticò mai. Lui, che sembrava la reincarnazione di don Giovanni,
non amò nessuna altra donna più della madre. L'amò
più ancora della giustizia. Infatti, quando lo scontro tra le comunità
s'intensificò, dopo angoscianti esitazioni, proprio mentre riceveva
il premio Nobel per la Letteratura, a Stoccolma, nel 1957, pronunciò
una frase decisiva, rimasta celebre: «Credo alla giustizia, ma prima
della giustizia difenderò mia madre». La confessione d'un
intellettuale in preda all'incertezza, allo smarrimento, fu interpretata
a sinistra (e in particolare da JeanPaul Sartre), come un tradimento, e
a destra come una presa di posizione in favore dell'Algeria francese. Camus
preferì chiudersi nel silenzio. Nel ‘60, quando morì in un
incidente stradale, la guerra infuriava ancora.
La peste di Albert Camus ha come teatro Orano, ma non c'è un
solo cenno agli arabi. In Lo straniero, la cui trama si svolge ad Algeri
e dintorni, c'è un solo personaggio arabo, ed è la vittima.
A questo pensavo, senza trarre conclusioni, mentre leggevo a Orano e ad
Algeri quei due romanzi, che restano tra i miei preferiti, senz'altro tra
quelli che mi porterei in un'isola deserta. Nell'estate del ‘62 ho avuto
l'impressione di vivere un capitolo di La peste, mentre percorrevo in lungo
e in largo il quartiere ebraico di Orano. Erano rimasti soltanto i vecchi,
che avevano rifiutato d'abbandonare il loro Paese per una Francia sconosciuta.
Nelle strade s'inciampava nei cadaveri degli animali domestici, cani e
gatti, che, non potendoli portare con sé, al momento della partenza
gli abitanti in fuga non avevano voluto abbandonare vivi.
Per non nutrire eccessive illusioni sull'avvenire della rivoluzione,
sarebbe bastato gettare un'occhiata ai villaggi kabili, alla loro povertà,
alla sottomissione delle donne, alle strutture autoritarie delle comunità
rurali, all'intolleranza del Fln verso ogni altra formazione politica.
Era chiaro che da quella realtà non poteva uscire un modello di
società. Né le città, da Orano a Costantina, abitate
da popolazioni arabe, offrivano panorami umani più promettenti.
La nostra giusta ammirazione per la lotta di liberazione dal colonialismo
ci faceva trascurare quegli aspetti essenziali, ci nascondeva i limiti
della rivoluzione algerina. Kateb Yacine vedeva con chiarezza quei limiti
ed era disperato. Aveva già scritto Nedjma, in cui la trama parte
dal massacro di Setif (del ‘45, quando i francesi repressero, facendo migliaia
di morti, un tentativo d'insurrezione), aveva già raccontato in
quel libro la genesi della guerra d'indipendenza, era l'autore del grande
romanzo nazionale, ma aveva paura della nazione indipendente che stava
per nascere. Un giorno, ad Algeri, sui gradini della scalinata che porta
al Forum, quando ormai la guerra volgeva alla fine, m'annunciò con
lucidità che tipo di potere militare avrebbe prevalso: un potere
vulnerabile alla corruzione e incline ai soprusi di una dittatura. Le sue
previsioni si rivelarono esatte. Quando morì, molti anni dopo, quell'algerino
disperato che scriveva in francese con lo stile di Faulkner, e che annegava
spesso l'angoscia nell'alcool, ebbe un funerale al ritmo dell'Internazionale,
cantata dai suoi amici laici, e del Corano, recitato dai suoi ammiratori
religiosi.
Le note socialiste si confondevano con i versetti dettati dall'arcangelo
Gabriele a Maometto. Kateb Yacine era un uomo di teatro, autore di tante
commedie popolari, e forse avrebbe gradito uno spettacolo cosi carico di
simboli. In Algeria l'ideologia socialista era posata sulla tradizione
islamica, le cui radici erano assai più profonde ed estese. L'integralismo
sarebbe emerso molto più tardi, trent'anni dopo, quando il socialismo
arabo aveva ormai fatto bancarotta. L'Islam diventò di nuovo un
rifugio, ma questa volta nella versione fondamentalista.
***
Beirut era un balcone dal quale potevi assistere alle convulsioni del
vicino Oriente senza subirne gli inconvenienti. A 6 anni di distanza (tra
il ‘52 e il ‘58) nei due maggiori Paesi arabi, l'Egitto e l'Iraq, alle
monarchie erano succedute repubbliche socialiste. E dal Cairo e da Bagdad
erano arrivati a ondate successive cortigiani e proprietari, con mogli
e gioielli. A Beirut avevano i loro conti in banca: e nelle località
di villeggiatura, sulle montagne coperte di cedri giganteschi, incontravano
i principi del petrolio fuggiti dalle torride estati dell'Arabia Saudita
e del Golfo. I cosmopoliti levantini del Libano erano i consiglieri finanziari
e politici di quei turisti di rango, che non avevano ancora scoperto le
università americane, dove avrebbero più tardi mandato figli
e nipoti. I direttori degli istituti di credito si vantavano di avere come
clienti sceicchi e rivoluzionari. Il loro Paese era una Svizzera orientale.
In Libano al denaro non si chiedeva il passaporto. Né all'ingresso
né all'uscita.
Mentre nella vicina Damasco i frequenti colpi di Stato interrompevano
puntualmente tutte le comunicazioni isolando l'intera Siria, a Beirut era
sempre facile, notte e giorno, avere in linea Londra, Parigi, New York,
Milano, e all'areoporto c'era sempre un volo verso una di quelle destinazioni.
Sulla terrazza dell'Hotel Saint Georges s'incontravano galantuomini
e lestofanti; uomini politici o miliardari scortati dalla polizia o da
guardie del corpo, e personaggi con false identità e inseguiti dalle
polizie europee; non mancavano le spie più o meno autentiche; tra
quelle autentiche c'era Kim Philby, allora corrispondente dell'Observer,
e in procinto di fuggire a Mosca, via Damasco. Beirut era la sola capitale
araba dove fossero in vendita i giornali di tutto il mondo; e anche la
sola in cui un giornalista potesse mandare i suoi articoli, per telefono
e per telegrafo, senza sottostare alla censura.
Nessuno sospettava, negli Anni ‘60, d'esser seduto su una polveriera.
Non c' erano motivi apparenti per pensarlo.
Infatti tutto procedeva nel migliore dei modi: la politica, l'economia,
il divertimento. C'era persino una facciata democratica: un completo arco
di partiti, da quello comunista a quello nazionalista fascisteggiante.
An Nahar era il miglior quotidiano arabo del Medio Oriente. Senz'altro
il più libero. Sul lungomare si bevevano ottimi caffé turchi.
I night club ospitavano gente di tutte le razze, dagli sceicchi arabi alle
ragazze scandinave. Al "Casino du Liban", sulla strada che porta ad Aleppo,
in Siria, arrivavano i grandi spettacoli di varietà da New York
e da Parigi. La polveriera esplose nel ‘75. La guerra civile fu interminabile
e vide essenzialmente a confronto cristiani e musulmani. Nell'82 Israele
entrò nella mischia. Invase il Libano con l'obiettivo ufficiale
di combattere l'Olp che vi si era arroccato.
Edouard Saab vide soltanto l'inizio della tragedia. Era un cristiano
maronita. Era nato in Siria, a Latakieh, e aveva sposato una bella ragazza
di Aleppo, ma si sentiva libanese. Non tuttavia al punto da credere alle
origini fenice rivendicate dai cristiani come lui, ansiosi di distinguersi
dagli arabi musulmani. Edouard sapeva d'essere un arabo cristiano. Era
allora segretario di redazione del quotidiano L'Orient. Un giorno gli dissi
che volevo scrivere un articolo sui cattivi rapporti tra cristiani e musulmani
in Libano. Mi disse: «Da amico, te lo sconsiglio». Mi spiegò
che era un argomento tabù. Potevo raccontare le rivoluzioni irachene,
siriane, i guai politici e le vicende amorose del re di Giordania, gli
eccessi di Nasser e il conflitto sempre latente con Israele, ma non i cattivi
rapporti tra cristiani e musulmani in Libano. Né l'impostura su
cui si basava lo strapotere dei cristiani. Secondo un vecchio censimento
costituivano ufficialmente la maggioranza della popolazione, mentre era
sempre più evidente che i più numerosi, grazie alla demografia
galoppante, erano da un pezzo i musulmani sciiti. I quali venivano trattati
come una spregevole minoranza. In questa impostura, i dirigenti musulmani
sunniti erano complici dei cristiani.
Seguii il consiglio di Edouard e non m'occupai dell'argomento. «Il
silenzio, diceva, esorcizza il pericolo». La presenza di più
di mezzo milione di profughi palestinesi contribuì anni dopo a spezzare
l'omertà. Ma prima che questo accadesse i fedayn di Al Fatah diventarono
i nuovi eroi del mondo arabo, dopo l'umiliazione subita dagli eserciti
tradizionali d'Egitto, Siria e Giordania, durante la guerra perduta del
‘67, contro Israele.
Alcune signore libanesi amiche m'affidarono maglie di lana, che
loro stesse avevano fatto insieme nei salotti, durante il tè pomeridiano,
affinché le consegnassi ai guerriglieri palestinesi accampati ad
Amman, dove andavo a passare il Natale. E mi suggerirono di proporre "Bella
Ciao" ai dirigenti di Al Fatah che cercavano un inno. La tenzone affiorò
in un primo tempo tra i cristiani e i palestinesi, sempre più forti
e invadenti, politicamente e militarmente, sul territorio libanese, e quindi
sempre meno vezzeggiati dalle mie amiche cristiane.
La massa dei musulmani, in particolare i partiti "progressisti",
si schierarono con i palestinesi contro i cristiani. Cosi s'arrivò
alla guerra civile. La quale non si svolse in modo netto tra due comunità
a confronto.
Le lotte tra i clan cristiani, come tra quelli musulmani, sunniti
e sciiti, furono infatti feroci. A volte furono faide tra clan mafiosi.
I dirigenti israeliani, e tra questi Ariel Sharon (che fu il condottiero
dell'invasione dell'82), sognavano un'alleanza tra Israele e il Libano
cristiano. Neppure loro si erano resi conto che era una polveriera. Edouard
Saab non vide tutto questo. Fu ucciso subito, all'inizio della guerra civile,
vicino al Museo di Beirut, mentre faceva il suo mestiere di giornalista.
Era un cronista leale e intrepido. Un amico prezioso. Un proiettile lo
colpì alla testa, in fronte; non si sa se un proiettile cristiano
o musulmano. Al suo fianco, in automobile, c'era Henry Tanner, del New
York Times, che fece appena in tempo ad afferrare il volante, sul quale
Edouard s'era abbattuto. La moglie di Edouard si risposò anni dopo
con un saudita e il figlio diventò un militante delle falangi cristiane.
***
Michel Aflaq era un cinquantenne affabile quando lo incontrai in
una villetta lungo il fiume, a Bagdad, nel 1963. Era inverno e le acque
del Tigri erano fangose e increspate. Il loro brontolio non riusciva a
coprire gli spari nei non tanto vicini quartieri dove i reparti fedeli
al generale Abd alSalem Aref, autore del colpo di Stato avvenuto pochi
giorni prima, davano la caccia ai dirigenti e ai militanti comunisti. Le
continue raffiche di mitra rivelavano la natura della repressione. Ma Aflaq
non si preoccupava di quel lontano, nevrotico brusio. Era in giacca e cravatta,
dietro una scrivania zeppa di carte. Era entusiasta. Era stato il suo partito,
il partito Baas (il partito della Rinascita araba), a preparare il colpo
di Stato che lui chiamava pomposamente rivoluzione. L'eroe del momento
era il generale Aref, che aveva appena abbattutto il regime del generale
Kassem, amico dell'Unione Sovietica e alleato dei comunisti iracheni. E
Aref era un amico del Baas, del quale Aflaq era uno dei fondatori e l'incontestato
ideologo.
Il Baas era a quei tempi il solo vero grande partito laico del mondo
arabo: e Michel Aflaq pensava che il marxismo e il capitalismo fossero
espressioni dell'Occidente antiarabo, quindi da tenere entrambi a distanza.
Il Baas al potere a Bagdad era un primo passo verso un mondo arabo
unito, un mondo arabo laico e moderno, la cui capitale sarebbe stata creata,
nuova fiammante, in un luogo da concordare, tra il Nilo e il Tigri. Questo
mi diceva Aflaq, visionario panarabista laico, quel giorno, in una Bagdad
ancora presidiata dai carri armati. E io gli chiedevo, insistente, con
autentica curiosità, dove avrebbe costruito la capitale, della quale
non sarebbe mai stata posata neppure la prima pietra.
Fu lo stesso generale Aref a raccontare come si era svolto il colpo
di Stato. Virgilio Lilli ed io lo incontrammo in una caserma e gli parlammo
a lungo. L'uomo era svelto. Loquace. Vanitoso. Meglio non averlo per amico.
Cinque anni prima, il 14 luglio ‘58, era stato lui, allora un colonnello
di 37 anni, a occupare con il suo reggimento i punti strategici della capitale,
e ad annunciare la fucilazione di re Feisal, appartenente alla dinastia
Hascemita (un tempo custode della Mecca e di Medina) e della sua famiglia
nel giardino del palazzo reale. Il generale Kassem era arrivato a Bagdad
più tardi con le sue truppe, per decretare la fine della monarchia
e proclamare la repubblica, della quale sarebbe diventato il presidente.
Nel ‘63 Aref aveva ripetuto l'impresa scalzando dal potere Kassem. Era
stata la rivolta (o il tradimento) del figlio, del compagno d'armi, dell'amico.
I due soldati si conoscevano bene. Chissà quante volte si erano
chiamati fratelli, come usa da quelle parti. Il dialogo finale, che Aref
ci riferì con candore, era avvenuto per radio.
Kassem era circondato nel suo rifugio, non aveva più la forza
per sventare il colpo di Stato, sapeva di non avere via di scampo. Chiese
allora di parlare con Aref, e Aref acconsentì. Non poteva rifiutare
un colloquio al protettore di ieri. Ma non andò oltre. Kassem gli
chiese subito di concedergli la vita; e lui rispose senza indugio che era
spiacente, non poteva risparmiarlo. Vivo avrebbe continuato a rappresentare
un pericolo. Si scusò e ordinò di bombardare il rifugio.
Pochi mesi dopo il colpo di Stato Aref si liberò degli alleati
del partito Baas che l'avevano aiutato nel complotto. Li cacciò
dal potere. Non pochi di loro persero la vita, come era accaduto ai comunisti
pochi mesi prima. Tra i militanti del Baas delusi c'era un giovane sconosciuto
con un grande e tragico avvenire. Il suo nome era Saddam Hussein. Era esule
al Cairo ed era rientrato in Iraq, insieme ad altri compagni, quando Aref
aveva preso il posto di Kassem. Anche Michel Aflaq fu deluso, ma continuò
ancora per anni a operare in favore di un regime laico panarabo. Lui era
siriano ma puntò spesso sull'ala irachena del partito che era in
contrasto con l'ala siriana. La sua lunga vita politica fu ritmata da altre
speranze e delusioni.
Era nato cristiano, greco ortodosso, e si era ispirato con fervore
al "personalismo" del filosofo Emmanuel Mounier. Il quale tendeva a una
sintesi tra cristianesimo e socialismo. Ma alla fine, dopo aver tanto sognato
un mondo arabo laico, si convertì all'Islam. Nell'89, quando morì,
Michel Aflaq era un musulmano devoto.
***
La genialità dell'Egitto è limpida, come la luce sull'Alto
Nilo, ed è volentieri pacifica, tollerante. È serena, se
non proprio tranquilla o bonaria. Questa natura ha contribuito, per secoli,
a mantenere saggio e vivo l'Islam portato dai cavalieri di Amr Ibn el<\->Ass,
arrivati dallo Yemen (nel 640 d.C.), appena qualche anno dopo la morte
del Profeta. A turbarlo, ad agitarlo sono state soprattutto le forze venute
da fuori. L'ottimismo della civiltà del Nilo e l'antica e profonda
unità nazionale del paese gli hanno dato qualità sconosciute
in tante altre contrade musulmane. Nei frequenti soggiorni in Egitto leggevo
Louis Massignon (l'erudito e appassionato "Lawrence francese"), il quale
contrappone la dolcezza dell'Islam dell'ulivo, sul quale soffia l'aria
del Mediterraneo, dove si getta il Nilo, alla durezza dell'Islam delle
palme, i cui fiumi si gettano nel Golfo e nell'Oceano.
Bastava alzare lo sguardo dal libro di Massignon, e rivolgerlo al
Nilo che scorreva quieto sotto la mia finestra, per trovare una conferma
a quelle parole. Oggi il viaggiatore frastornato dal rumore e aggredito
dall'inquinamento del Cairo può trovare piuttosto bizzarre, improprie,
queste annotazioni. Ma esse riguardano altri tempi, e comunque non si riferiscono
alla superficie delle cose.
Pur non essendone il motore, per generazioni e generazioni l'università
di Al<\->Azhar, al Cairo, è stato il centro del pensiero e dei
riti dell'Islam universale.
Conservatori e innovatori vi si sono affrontati, e vi si affrontano.
I fulmini dei primi colpirono Muhammad Abduh, razionalista dell'inizio
del Novecento, quando sosteneva che è più vicino alla verità
chi cerca e sbaglia di chi segue ("come un montone") le vecchie strade
per non cadere in errore. Hanno suscitato sdegno e rimproveri coloro che,
come Ali Abdel-Razek, incitavano a separare politica e religione. Negli
Anni Sessanta si poteva incontrare Taha Husayn, lo scrittore cieco dall'infanzia,
che fustigava il conservatorismo dei suoi maestri e veniva puntualmente
accusato di apostasia. Alla tradizione degli innovatori, che risale molto
in là nella storia, al Medio Evo e oltre, sulle sponde del Nilo
si è contrapposta, è vero, una tradizione fondamentalista
assai meno illuminata. I Fratelli Musulmani vi sono nati, a esempio, nel
1928, per iniziativa di un giovane maestro elementare di Ismailia, sul
canale di Suez, di nome Hassan el-Banna. El-Banna fu poi ucciso dalla polizia
di re Faruk: ma ancora oggi i principi della sua confraternita servono
da base ideologica a tutti i movimenti fondamentalisti. Principi facili
da riassumere in una sintesi, che resta tuttavia incompleta: il Corano
è la sola costituzione possibile, e, nella vita pubblica come in
quella privata, il solo riferimento accettabile è proprio il testo
dettato nel VII secolo dall'arcangelo Gabriele al Profeta. Su questa affermazione
sono sorte tante scuole di pensiero, più o meno integraliste, più
o meno liberali.
Il nasserismo trionfava in Egitto quando vi arrivai per la prima
volta. Alla partenza Georges Henein mi aveva messo in guardia. Era un poeta
e, prima d'essere un liberale egiziano in esilio in Europa, era stato surrealista
in Egitto. Insomma, era sempre stato un laico e apparteneva a quella straordinaria
società cosmopolita del Cairo e di Alessandria che il nazionalismo
arabo, e in particolare il nasserismo, ha ucciso, soppresso, privando l'Egitto
di un patrimonio di valore inestimabile, e comunque irrecuperabile. Georges
voleva essere sepolto nel cimitero degli stranieri al Cairo, che un tempo,
all'ingresso, aveva una lapide dedicata a Giordano Bruno. Credo sia stato
accontentato. Georges era un cristiano copto e sua moglie, Bula, era musulmana.
Quando s'abbandonavano alle confessioni, o alle nostalgie, lasciavano intendere
che Lawrence Durrell s'era ispirato anche a loro per i personaggi dei suoi
quattro romanzi alessandrini. Georges e Bula erano discreti. Nonostante
li avesse costretti all'esilio, e li avesse privati dei loro beni, non
mi dissero mai che Nasser era un dittatore di cui non ci si doveva fidare.
Mi invitarono a fare attenzione: "Non cadere nella trappola in cui cadono
tanti stranieri". Il nasserismo era in effetti una forma di nazionalismo
che poteva apparire corroborante in un antico paese decadente e ansioso
di riemergere, dopo le umiliazioni coloniali, quale era l'Egitto.
Era un nazionalismo che vedeva nel socialismo, un socialismo arabo,
la sola via possibile alla modernità. La corrente innovatrice religiosa
favoriva il regime. Ma, dicevano George e Bula, più che modernizzare
l'Islam, il colonnello Nasser vuole islamizzare la modernità. La
prospettiva faceva rabbrividire i miei due amici, allora ingiustamente
inascoltati.
Gli avvenimenti avevano spinto Nasser a perseguitare i Fratelli
Musulmani, e a giustiziarne un certo numero. Tra questi il prestigioso
teorico della confraternita, l'avvocato Abdelkader Auda. Il quale andò
incontro alla morte recitando i versetti del Corano, nella prigione di
Sayeda Zeinab. Ad aprire le ostilità non erano stati i "liberi ufficiali"
che avevano preso il potere nel ' 52, mandando in esilio re Faruk. La loro
svolta modernista era stata accentuata, accelerata, dalle 9 pallottole
sparate contro il loro capo, Gamal Abdel Nasser, ad Alessandria, da un
affiliato alla confraternita. L'attentatore fu condannato a morte insieme
ai complici, tra i quali appunto l'avvocato Auda. Il nasserismo era in
tutti i modi allergico ai bigotti. Raccontava Jean Lacouture, allora corrispondente
di France Soir dal Cairo, che, nel '55, lo sheik Tag, vecchio rettore di
Al-Azhar, aveva fatto un giorno l'apologia della poligamia, sostenendo
che bisognava tener conto degli "incontenibili desideri dell'uomo quando
sua moglie è indisposta". La reazione della stampa nasseriana, e
probabilmente dello stesso Nasser, era stata immediata: il rettore di Al-Azhar
avrebbe dovuto enfatizzare anche l'antropofagia, nell'eventualità
d'una penuria di carne di montone.
Il nasserismo naufragò nel giugno del '67, durante la Guerra
dei Sei giorni. Nasser sperava di cancellare la sconfitta araba del '48,
dalla quale era nato lo Stato d'Israele e in seguito alla quale era defunta
la monarchia egiziana, e di quella successiva del '56, rappezzata dagli
americani che avevano ordinato agli israeliani di ritirarsi dal Sinai.
Ma il terzo conflitto s'era concluso con un'altra umiliazione, più
grave delle precedenti. Perché nel giugno '67 gli arabi si sentirono
sconfitti, più che dalla forza militare di Israele, dalla modernità
che Israele rappresentava ai loro occhi. Una modernità che il nazionalismo
e il socialismo di Nasser non avevano saputo realizzare. Fu un avvenimento
d'una portata storica, non solo per l'Egitto. Fu come se con l'illusione
creata da Nasser crollasse una diga.
L'islamismo dilagò sulle sponde del Nilo e nell'universo
musulmano. Islamismo non significa solo terrorismo o estremismo. Il termine
s'addice senz'altro al movimento dei Fratelli Musulmani (perché
il suo obiettivo è appunto di creare un sistema basato sui valori
islamici) e alle sue ramificazioni via via estesesi a tanti paesi. Dopo
la sconfitta del '67 e poi la morte del nasserismo, e dello stesso Nasser,
la confraternita ha riacquistato una notevole forza d'attrazione. Le si
è spalancato davanti il vuoto lasciato dal nazionalismo e dal suo
additivo socialista. Le si è formata attorno una nebulosa d'individui,
soprattutto intellettuali, studiosi di teologia ma anche matematici, medici,
chimici, fisici, ansiosi di trovare un'alternativa alla fallita esperienza
nasseriana. Le scienze esatte, più degli studi umanistici (troppo
inquinati dall'occidentalismo), hanno fatto da sfondo alla ricerca di modelli
sociali ispirati ai principi dell'Islam. Questa ricerca non ha tuttavia
avuto come sbocco obbligato l'estremismo e il terrorismo. Essa ha favorito
spesso la nascita di correnti riformiste. Ne è la prova il fatto
che oggi molti movimenti islamici rifiutano il terrorismo di Bin Laden.
Ma è vero che negli anni Settanta sono sorti movimenti più
radicali, destinati al terrorismo. Ad esempio la Gamà'a Islamiya
o il Jihad.
In Egitto sono stato testimone di tanti avvenimenti corali: le svolte
sempre orchestrate e retoriche del regime nasseriano; l'inaugurazione della
colossale diga di Assuan che ha cambiato il sistema idraulico millenario;
la Guerra dei Sei Giorni e quella "d'usura" che continuò per anni
lungo il Canale di Suez; la morte e gli imponenti funerali di Nasser nel
'70; la Guerra del Kippur tre anni dopo; lo straordinario viaggio di Sadat
a Gerusalemme nel '77; il suo assassinio e i suoi freddi, glaciali funerali
nell'81. Tutti questi eventi, che hanno avuto come protagonista un popolo
emotivo incline all'esaltazione ma non al fanatismo, restano vivi nella
mia memoria satura di vecchio cronista. Ma quel giorno del giugno '67 in
cui Nasser dette le dimissioni, addossandosi la responsabilità della
fulminea disfatta, e milioni di cairoti si riversarono per le strade implorandolo
di restare, il dramma raggiunse un'ampiezza e un'intensità tali
che ancora oggi, ripensandoci, mi lasciano senza fiato. Non mi era mai
accaduto di sentire le emozioni di un'imponente massa di uomini e donne
come se fossero quelle d'un solo essere umano, del quale ascoltavo i palpiti
con l'orecchio accostato al suo cuore.
Ebbi questa sensazione quando nella notte attraversai una parte
della città buia, scavandomi un varco nella folla silenziosa che
aspettava la risposta del raìs. La gente sentiva che eri uno straniero
e non opponeva resistenza, s'apriva quasi con dolcezza, lasciandoti entrare
in quella che era in fondo l'intimità d'un popolo ferito. Avevo
seguito per giorni, sul lungo Nilo, l'arrivo dei brandelli dell'esercito
sbaragliato nel Sinai dai soldati del generale Dayan: camion carichi d'uomini
stralunati, mezzi corazzati isolati che davano l'impressione d'aver smarrito
la strada. Avevo immaginato la collera, la rabbia, la voglia di rivincita,
dopo lo smarrimento: e invece ci fu quell'invocazione a Nasser di restare,
perché se se ne fosse andato la disfatta sarebbe stata ancora più
pesante. Era l'agonia di un'illusione.
Nasser esaudì la folla; forse era stato lui stesso il regista
della propria rielezione plebiscitaria; comunque restò al potere;
morì tre anni dopo, d'infarto, dopo un agitato incontro con presidenti
e monarchi arabi riuniti al Cairo per discutere di un'altra bruciante sconfitta.
Quella dei palestinesi, a Amman, in Giordania, dove Arafat aveva tentato
invano di mantenere l'Olp e i suoi fedayn, ormai troppo ingombranti e aggressivi
per re Hussein. Hussein era riuscito a cacciarli dal regno, dopo averli
massacrati.
Per una settimana avevo seguito, a Amman, lo scontro tra i beduini
fedeli al sovrano hascemita e i guerriglieri di Al Fatah, creati dopo la
disfatta del '67 e diventati i simboli del nuovo onore arabo e palestinese.
La conclusione non era stata gloriosa. Il "settembre nero" del '70 fu una
sanguinosa rissa tra arabi. I fatti di Amman contribuirono a spezzare il
già fragile cuore di Nasser. Da Amman, via Beirut, ritornai sulle
rive del Nilo per i suoi funerali, che furono grandiosi. L'islamismo era
già nell'aria. Anuar el Sadat, il successore di Nasser, riallacciò
sotto banco i rapporti con i Fratelli Musulmani, e fu ucciso da un integralista.
I miei amici egiziani, Georges e Bula, in esilio a Parigi, esultarono
quando morì il nasserismo. Fu forse in quei giorni che Georges scrisse
La passeggiata filosofica del dittatore. Una novella che comincia: "Una
straordinaria dolce aria di disfatta aleggiava nella sera". Il seguito
li amareggiò entrambi. Nel mondo musulmano, che restava la loro
patria, i movimenti islamisti presero il posto dei movimenti nazionalisti.
E ci fu poi il trionfo della rivoluzione iraniana, nel febbraio del '77.
Ma ritornando da Teheran, dove avevo assistito alla partenza dello scià
e all'arrivo di Khomeini, non trovai più Georges. Bula gli sopravvisse
per poco. Non abbastanza per assistere all'imprevedibile seguito della
storia.