repubblica 2/11/01
 

Così ho visto
cambiare l'Islam
la memoria

BERNARDO VALLI


L'albergo si trova nella parte bassa di Algeri, a ridosso del mare. Una sera di tre anni fa nell'atrio aleggiava un non tanto vago odor di muffa. Ci ritornavo dopo una lunga assenza e il mio slancio nel rivisitare un luogo cosi carico di ricordi si smorzò di colpo. Si frantumò contro quel tanfo, solido come un muro. L'umidità mediterranea era stata aggressiva e devastante. La memoria aveva conservato un'altra immagine.
Un tempo nell'ingresso c'era sempre un vistoso mazzo di fiori (spesso gladioli, a volte rose); e nelle camere, durante il giorno, stagione calda compresa, la brezza filtrava dalle finestre accostate gonfiando le tende di leggero cotone bianco.
Tre anni fa era come varcare la soglia di un antro. Il bar era deserto e nel vuoto spuntarono numerosi fantasmi: tante facce di tante nazionalità e diverse religioni, uniformi militari, terroristi promossi eroi, voci esaltate e disperate in arabo e in francese: e, come da una fotografia sfuocata, riaffiorò una notte remota in cui aspettai invano, impaziente, l'arrivo della flotta di Tolone, con la nave ammiraglia in testa. A quell'epoca Guillaume, il barman, un ex legionario, officiava fino all'alba tra bottiglie e bicchieri. Ma quella era una sera particolare. I militari erano convinti di fare la storia e i cronisti di scriverla. L'alcool aiutava a passare dall'eccitazione all'euforia.
Mentre Guillaume gli serviva un ennesimo whisky, un ufficiale francese accusò Randolph Churchill, inviato speciale del Daily Express e figlio del grande Winston, di aver ucciso Giovanna d'Arco. Churchill junior non raccolse la provocazione. Di whisky ne aveva bevuti anche lui; e in un'altra occasione avrebbe forse replicato gettando in faccia al francese le disfatte napoleoniche a Trafalgar o a Waterloo; ma in quel momento aveva altro per la testa. Come tutti, anche lui aspettava la flotta.
 

Stando alle sue (ed anche nostre, del tutto infondate) informazioni, il grosso della Royale, così la Francia repubblicana chiama la marina militare, stava per salpare dal porto di Tolone per unirsi al corpo di spedizione in Algeria, insorto contro la politica rinunciataria del governo di Parigi.
Sarebbe stato un formidabile colpo di scena. I più sensibili erano gli inglesi, figli di un impero marinaro.
In quelle ore la Quarta Repubblica agonizzava sulle rive della Senna; de Gaulle stava per ritornare al potere e fondare la Quinta Repubblica, sotto la spinta degli insubordinati militari d'Algeria, decisi a non abbandonare anche quel paese africano, dopo la tragica ritirata coloniale dall'Indocina.
La sconfitta di Dien Bien Phu aveva appena quattro anni. E due anni prima l'esercito francese e quello britannico, lanciati nella spedizione di Suez, per impedire la nazionalizzazione del Canale decisa dal colonnello Gamal Abdel Nasser, si erano dovuti ritirare per ordine degli americani. I militari non volevano altre umiliazioni. L'Algeria era per loro irrinunciabile. Tutto avveniva però senza le manovre navali che noi aspettavamo trepidanti al bar. In quel maggio ‘58 la flotta non si mosse da Tolone: ma all'alba, mentre Guillaume vuotava i portacenere e chiudeva a chiave le sue riserve di whisky e di Pastis, Randolph Churchill e altri colleghi britannici partirono lo stesso per ispezionare la costa, dalla quale speravano di avvistare per primi la nave ammiraglia ribelle.
Tante altre notti furono movimentate nell'albergo d'Algeri in riva al mare. Il bancone del portiere e quello di Guillaume, il barman, servirono più volte da riparo ad alcuni di noi. Capitava che si dovessero evitare colpi che non ci erano indirizzati. Colpi del Fronte di Liberazione Nazionale che si batteva per l'Algeria indipendente, o colpi dell'Oas, l'organizzazione segreta dei coloni che volevano conservare l'Algeria francese. Come sulla spiaggia quando arrivano sporadiche onde lunghe, l'albergo era ogni tanto lambito da effimere minacce provenienti dall'esterno, dove era in corso la guerra che si sarebbe conclusa nel ‘62 con la nascita di nuovo Stato nell'Africa settentrionale.
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Là, un cospicuo numero d'anni fa, ho avuto la mia prima esperienza in terra musulmana. Per la verità di brevi incursioni nei Paesi arabi ne avevo già compiute. Ma l'Algeria era un'altra cosa. Era il teatro di una guerra coloniale. L'ultima. Riportati a oggi, il linguaggio e i comportamenti di allora possono risultare tremendamente datati. Persino un po' patetici. Attorno a noi naufragava nel sangue (si parlò più tardi di un milione di morti in 8 anni) un impero coloniale che viveva tempi supplementari, oltre quelli consentiti dal calendario e dalla ragione: tempi duri, con villaggi bruciati al napalm sul massiccio dell'Aurès; torture inflitte negli scantinati di Algeri e di Orano; bombe che esplodevano negli stadi, nei bar, nelle sale da ballo; e vani richiami ai diritti dell'uomo.
Tutti torturavano, massacravano, terrorizzavano, francesi e algerini: ma per i primi, figli di Voltaire e di Rousseau, e con ancora nella memoria le sevizie naziste nella Francia occupata durante la Seconda guerra mondiale, la scelta della repressione non era esaltante. Per gli algerini era invece la sofferta nascita della nazione.
Questa rievocazione non è un indugiare sui ricordi: a sollecitarla è l'attualità, è il presente, è quel che accade ai nostri giorni, in queste ore. All'origine c'è un interrogativo: quale era lo spazio occupato dall'Islam, adesso tanto invadente, in quei lontani avvenimenti? C'erano tracce di fanatismo religioso in quel conflitto? Quando l'Islam è comparso "in prima persona" nel Maghreb o in Medio Oriente?
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Solidamente radicato nel Paese (dal VII secolo d.C.) l'Islam era rimasto la sola "patria" per molti algerini dopo la conquista francese. Per oltre 130 anni era stato l'unico rifugio. Era l'ancoraggio indispensabile per conservare la propria identità, per difendere l'unità morale e sentimentale, per alimentare la resistenza alle influenze (a volte modernizzatrici) e alle prepotenze (sempre umilianti) della società coloniale. La tradizione con i suoi valori, anche i più intimi, come il rispetto degli anziani, la solidarietà familiare, l'autorità del capo famiglia, in sostanza la struttura patriarcale, si confondeva con la religione. Ma il movimento indipendentista radicale, monopolizzato (dal ‘54 in poi) dal Fronte di Liberazione Nazionale, traeva la sua forza non solo dalla tradizione islamica, ma anche dall'ideologia socialista. I militanti algerini ne avevano imparato i rudimenti nei contatti con la cultura politica francese; se ne erano serviti per analizzare la loro situazione nella patria colonizzata; ed anche per studiare modelli di organizzazione.
Nella dottrina del Fln, la parte dovuta all'influenza francese era la più decifrabile per gli osservatori stranieri. Negli Anni ‘50 e ‘60, anni della decolonizzazione e delle ideologie, le rivoluzioni non potevano essere soltanto nazionali. Quelle che si dichiaravano socialiste, vagamente marxiste, erano preferite dai movimenti del Terzo Mondo. Avevano il merito d'opporsi al capitalismo delle potenze coloniali, e di scardinare i sistemi economici e sociali appena ereditati. Mancando imprenditori e capitali privati indigeni, non compromessi col regime coloniale, lo statalismo (il "socialismo") era una scelta quasi obbligata. Tra i dirigenti algerini gli intellettuali non erano numerosi, anzi erano rari, e altrettanto rari erano quelli di origine contadina, benché lo fosse la stragrande maggioranza della popolazione.
 

I capi dell'insurrezione erano in generale più istruiti della media, avevano spesso la licenza elementare, alcuni di loro erano stati sottufficiali dell'esercito francese, prima durante la guerra in Italia (nel ‘44 e ‘45) e poi in Indocina (nei primi Anni ‘50, quando avevano imparato che la Francia, sconfitta a Dien Bien Phu, poteva soccombere davanti a una guerriglia del Terzo Mondo). La scuola francese, che imponeva un'assimilazione culturale sia pur limitata, li aveva convertiti alla critica e ad alcuni principi fondamentali della libertà laica, assenti nella tradizione musulmana prevalente in Algeria.
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Di primo mattino andavo a volte in Kabilia. M'accodavo ai genieri francesi che sminavano la strada di Tizi Ouzu e di Fort National. In quella regione gli scioperi rivelavano la forza del Fln. I berberi partecipavano compatti. Non era probabilmente facile disubbidire. Non c'era una bottega aperta. Se riuscivi a farti servire un tè alla menta non potevi pagarlo. Te l'offrivano, non accettavano soldi. Sarebbe stato un atto di crumiraggio e poteva costare la vita. Ammiravo quella solidarietà, anche se in certi casi obbligata. Giovane cronista mi sentivo testimone d'un avvenimento eccezionale, la nascita d'una nazione; e anche di una rivoluzione alla quale molti attribuivano un valore che andava ben al di là della vicenda algerina.
Nella sinistra francese, alcuni pensavano che in Algeria sarebbe stato realizzato quel che non era stato possibile realizzare in Europa alla fine della Seconda guerra mondiale.
Fu significativo l'appoggio al Fln di non pochi ebrei algerini, appartenenti a partiti di sinistra, o simpatizzanti. Alcuni intellettuali s'impegnarono a fondo, "portarono le valige", ossia collaborarono concretamente con la resistenza. Erano ebrei berberi (chiamati Mustaarazim) le cui famiglie erano radicate da millenni nel paese. I loro antenati si erano mischiati con le varie diaspore, provenienti dalla Palestina, in fuga dagli egiziani e poi dai romani dell'imperatore Tito, all'epoca delle distruzioni del tempio di Gerusalemme, o molto più tardi, nel XV secolo, dalla Spagna dell'Inquisizione. Tra di loro c'erano anche quelli d'origine livornese, o chiamati livornesi, arrivati assai più tardi, durante l'impero Ottomano, come ebrei franchi, ossia con le prerogative degli altri europei, protetti da un console e non sottoposti alla giustizia locale.
In seguito a una legge del 1870 (la legge Cremieux) tutti gli ebrei algerini erano diventati francesi a pieno titolo; ed è in quanto tali che poco meno di un secolo dopo quella legge la stragrande maggioranza di loro, la quasi totalità, lasciò il paese precipitosamente, al momento dell'indipendenza. Se si escludono i non pochi casi d'intellettuali e militanti di sinistra impegnatisi in favore della resistenza algerina, il destino degli ebrei si confuse con quello di un milione di "piedi neri" (cosi erano chiamati i francesi dell'Africa del Nord) dei quali condividevano in generale idee e timori. In quegli anni conobbi Jean Daniel, allora inviato speciale del settimanale L'Express. La nostra amicizia risale a quell'epoca.
Nato in una famiglia ebrea di Blida, a sud di Algeri (ai limiti della pianura della Mitidja e ai piedi delle prime montagne dell'Atlante) Jean riusciva a essere leale verso le sue due patrie. Riconosceva e difendeva il diritto all'indipendenza dell'Algeria richiamandosi ai principi e alla cultura che lo legavano indissolubilmente alla Francia, per la quale s'era battuto durante la guerra di liberazione dalla Germania nazista.
Quanto fossero laceranti le scelte lo dimostravano le perplessità del suo amico Albert Camus. Camus era un "piede nero". Suo padre discendeva da piccoli coloni francesi (arrivati per motivi economici, ma a volte anche deportati dalla Francia per delitti comuni o per ragioni politiche, in seguito a insurrezioni come quelle del 1848 o del 1870); sua madre era invece spagnola e veniva da una famiglia d'operai agricoli, braccianti. Era una madre adorata. Quando il figlio giocava con i ragazzi arabi per le strade di Belcourt, un quartiere popolare d'Algeri, lei contribuiva al bilancio familiare facendo lavori domestici in casa d'altri. Camus non lo dimenticò mai. Lui, che sembrava la reincarnazione di don Giovanni, non amò nessuna altra donna più della madre. L'amò più ancora della giustizia. Infatti, quando lo scontro tra le comunità s'intensificò, dopo angoscianti esitazioni, proprio mentre riceveva il premio Nobel per la Letteratura, a Stoccolma, nel 1957, pronunciò una frase decisiva, rimasta celebre: «Credo alla giustizia, ma prima della giustizia difenderò mia madre». La confessione d'un intellettuale in preda all'incertezza, allo smarrimento, fu interpretata a sinistra (e in particolare da JeanPaul Sartre), come un tradimento, e a destra come una presa di posizione in favore dell'Algeria francese. Camus preferì chiudersi nel silenzio. Nel ‘60, quando morì in un incidente stradale, la guerra infuriava ancora.
La peste di Albert Camus ha come teatro Orano, ma non c'è un solo cenno agli arabi. In Lo straniero, la cui trama si svolge ad Algeri e dintorni, c'è un solo personaggio arabo, ed è la vittima. A questo pensavo, senza trarre conclusioni, mentre leggevo a Orano e ad Algeri quei due romanzi, che restano tra i miei preferiti, senz'altro tra quelli che mi porterei in un'isola deserta. Nell'estate del ‘62 ho avuto l'impressione di vivere un capitolo di La peste, mentre percorrevo in lungo e in largo il quartiere ebraico di Orano. Erano rimasti soltanto i vecchi, che avevano rifiutato d'abbandonare il loro Paese per una Francia sconosciuta. Nelle strade s'inciampava nei cadaveri degli animali domestici, cani e gatti, che, non potendoli portare con sé, al momento della partenza gli abitanti in fuga non avevano voluto abbandonare vivi.
Per non nutrire eccessive illusioni sull'avvenire della rivoluzione, sarebbe bastato gettare un'occhiata ai villaggi kabili, alla loro povertà, alla sottomissione delle donne, alle strutture autoritarie delle comunità rurali, all'intolleranza del Fln verso ogni altra formazione politica. Era chiaro che da quella realtà non poteva uscire un modello di società. Né le città, da Orano a Costantina, abitate da popolazioni arabe, offrivano panorami umani più promettenti. La nostra giusta ammirazione per la lotta di liberazione dal colonialismo ci faceva trascurare quegli aspetti essenziali, ci nascondeva i limiti della rivoluzione algerina. Kateb Yacine vedeva con chiarezza quei limiti ed era disperato. Aveva già scritto Nedjma, in cui la trama parte dal massacro di Setif (del ‘45, quando i francesi repressero, facendo migliaia di morti, un tentativo d'insurrezione), aveva già raccontato in quel libro la genesi della guerra d'indipendenza, era l'autore del grande romanzo nazionale, ma aveva paura della nazione indipendente che stava per nascere. Un giorno, ad Algeri, sui gradini della scalinata che porta al Forum, quando ormai la guerra volgeva alla fine, m'annunciò con lucidità che tipo di potere militare avrebbe prevalso: un potere vulnerabile alla corruzione e incline ai soprusi di una dittatura. Le sue previsioni si rivelarono esatte. Quando morì, molti anni dopo, quell'algerino disperato che scriveva in francese con lo stile di Faulkner, e che annegava spesso l'angoscia nell'alcool, ebbe un funerale al ritmo dell'Internazionale, cantata dai suoi amici laici, e del Corano, recitato dai suoi ammiratori religiosi.
Le note socialiste si confondevano con i versetti dettati dall'arcangelo Gabriele a Maometto. Kateb Yacine era un uomo di teatro, autore di tante commedie popolari, e forse avrebbe gradito uno spettacolo cosi carico di simboli. In Algeria l'ideologia socialista era posata sulla tradizione islamica, le cui radici erano assai più profonde ed estese. L'integralismo sarebbe emerso molto più tardi, trent'anni dopo, quando il socialismo arabo aveva ormai fatto bancarotta. L'Islam diventò di nuovo un rifugio, ma questa volta nella versione fondamentalista.
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Beirut era un balcone dal quale potevi assistere alle convulsioni del vicino Oriente senza subirne gli inconvenienti. A 6 anni di distanza (tra il ‘52 e il ‘58) nei due maggiori Paesi arabi, l'Egitto e l'Iraq, alle monarchie erano succedute repubbliche socialiste. E dal Cairo e da Bagdad erano arrivati a ondate successive cortigiani e proprietari, con mogli e gioielli. A Beirut avevano i loro conti in banca: e nelle località di villeggiatura, sulle montagne coperte di cedri giganteschi, incontravano i principi del petrolio fuggiti dalle torride estati dell'Arabia Saudita e del Golfo. I cosmopoliti levantini del Libano erano i consiglieri finanziari e politici di quei turisti di rango, che non avevano ancora scoperto le università americane, dove avrebbero più tardi mandato figli e nipoti. I direttori degli istituti di credito si vantavano di avere come clienti sceicchi e rivoluzionari. Il loro Paese era una Svizzera orientale. In Libano al denaro non si chiedeva il passaporto. Né all'ingresso né all'uscita.
Mentre nella vicina Damasco i frequenti colpi di Stato interrompevano puntualmente tutte le comunicazioni isolando l'intera Siria, a Beirut era sempre facile, notte e giorno, avere in linea Londra, Parigi, New York, Milano, e all'areoporto c'era sempre un volo verso una di quelle destinazioni.
Sulla terrazza dell'Hotel Saint Georges s'incontravano galantuomini e lestofanti; uomini politici o miliardari scortati dalla polizia o da guardie del corpo, e personaggi con false identità e inseguiti dalle polizie europee; non mancavano le spie più o meno autentiche; tra quelle autentiche c'era Kim Philby, allora corrispondente dell'Observer, e in procinto di fuggire a Mosca, via Damasco. Beirut era la sola capitale araba dove fossero in vendita i giornali di tutto il mondo; e anche la sola in cui un giornalista potesse mandare i suoi articoli, per telefono e per telegrafo, senza sottostare alla censura.

Nessuno sospettava, negli Anni ‘60, d'esser seduto su una polveriera. Non c' erano motivi apparenti per pensarlo.
Infatti tutto procedeva nel migliore dei modi: la politica, l'economia, il divertimento. C'era persino una facciata democratica: un completo arco di partiti, da quello comunista a quello nazionalista fascisteggiante. An Nahar era il miglior quotidiano arabo del Medio Oriente. Senz'altro il più libero. Sul lungomare si bevevano ottimi caffé turchi. I night club ospitavano gente di tutte le razze, dagli sceicchi arabi alle ragazze scandinave. Al "Casino du Liban", sulla strada che porta ad Aleppo, in Siria, arrivavano i grandi spettacoli di varietà da New York e da Parigi. La polveriera esplose nel ‘75. La guerra civile fu interminabile e vide essenzialmente a confronto cristiani e musulmani. Nell'82 Israele entrò nella mischia. Invase il Libano con l'obiettivo ufficiale di combattere l'Olp che vi si era arroccato.
Edouard Saab vide soltanto l'inizio della tragedia. Era un cristiano maronita. Era nato in Siria, a Latakieh, e aveva sposato una bella ragazza di Aleppo, ma si sentiva libanese. Non tuttavia al punto da credere alle origini fenice rivendicate dai cristiani come lui, ansiosi di distinguersi dagli arabi musulmani. Edouard sapeva d'essere un arabo cristiano. Era allora segretario di redazione del quotidiano L'Orient. Un giorno gli dissi che volevo scrivere un articolo sui cattivi rapporti tra cristiani e musulmani in Libano. Mi disse: «Da amico, te lo sconsiglio». Mi spiegò che era un argomento tabù. Potevo raccontare le rivoluzioni irachene, siriane, i guai politici e le vicende amorose del re di Giordania, gli eccessi di Nasser e il conflitto sempre latente con Israele, ma non i cattivi rapporti tra cristiani e musulmani in Libano. Né l'impostura su cui si basava lo strapotere dei cristiani. Secondo un vecchio censimento costituivano ufficialmente la maggioranza della popolazione, mentre era sempre più evidente che i più numerosi, grazie alla demografia galoppante, erano da un pezzo i musulmani sciiti. I quali venivano trattati come una spregevole minoranza. In questa impostura, i dirigenti musulmani sunniti erano complici dei cristiani.
Seguii il consiglio di Edouard e non m'occupai dell'argomento. «Il silenzio, diceva, esorcizza il pericolo». La presenza di più di mezzo milione di profughi palestinesi contribuì anni dopo a spezzare l'omertà. Ma prima che questo accadesse i fedayn di Al Fatah diventarono i nuovi eroi del mondo arabo, dopo l'umiliazione subita dagli eserciti tradizionali d'Egitto, Siria e Giordania, durante la guerra perduta del ‘67, contro Israele.
Alcune signore libanesi amiche m'affidarono maglie di lana, che loro stesse avevano fatto insieme nei salotti, durante il tè pomeridiano, affinché le consegnassi ai guerriglieri palestinesi accampati ad Amman, dove andavo a passare il Natale. E mi suggerirono di proporre "Bella Ciao" ai dirigenti di Al Fatah che cercavano un inno. La tenzone affiorò in un primo tempo tra i cristiani e i palestinesi, sempre più forti e invadenti, politicamente e militarmente, sul territorio libanese, e quindi sempre meno vezzeggiati dalle mie amiche cristiane.
La massa dei musulmani, in particolare i partiti "progressisti", si schierarono con i palestinesi contro i cristiani. Cosi s'arrivò alla guerra civile. La quale non si svolse in modo netto tra due comunità a confronto.
Le lotte tra i clan cristiani, come tra quelli musulmani, sunniti e sciiti, furono infatti feroci. A volte furono faide tra clan mafiosi. I dirigenti israeliani, e tra questi Ariel Sharon (che fu il condottiero dell'invasione dell'82), sognavano un'alleanza tra Israele e il Libano cristiano. Neppure loro si erano resi conto che era una polveriera. Edouard Saab non vide tutto questo. Fu ucciso subito, all'inizio della guerra civile, vicino al Museo di Beirut, mentre faceva il suo mestiere di giornalista. Era un cronista leale e intrepido. Un amico prezioso. Un proiettile lo colpì alla testa, in fronte; non si sa se un proiettile cristiano o musulmano. Al suo fianco, in automobile, c'era Henry Tanner, del New York Times, che fece appena in tempo ad afferrare il volante, sul quale Edouard s'era abbattuto. La moglie di Edouard si risposò anni dopo con un saudita e il figlio diventò un militante delle falangi cristiane.
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Michel Aflaq era un cinquantenne affabile quando lo incontrai in una villetta lungo il fiume, a Bagdad, nel 1963. Era inverno e le acque del Tigri erano fangose e increspate. Il loro brontolio non riusciva a coprire gli spari nei non tanto vicini quartieri dove i reparti fedeli al generale Abd alSalem Aref, autore del colpo di Stato avvenuto pochi giorni prima, davano la caccia ai dirigenti e ai militanti comunisti. Le continue raffiche di mitra rivelavano la natura della repressione. Ma Aflaq non si preoccupava di quel lontano, nevrotico brusio. Era in giacca e cravatta, dietro una scrivania zeppa di carte. Era entusiasta. Era stato il suo partito, il partito Baas (il partito della Rinascita araba), a preparare il colpo di Stato che lui chiamava pomposamente rivoluzione. L'eroe del momento era il generale Aref, che aveva appena abbattutto il regime del generale Kassem, amico dell'Unione Sovietica e alleato dei comunisti iracheni. E Aref era un amico del Baas, del quale Aflaq era uno dei fondatori e l'incontestato ideologo.
Il Baas era a quei tempi il solo vero grande partito laico del mondo arabo: e Michel Aflaq pensava che il marxismo e il capitalismo fossero espressioni dell'Occidente antiarabo, quindi da tenere entrambi a distanza.
Il Baas al potere a Bagdad era un primo passo verso un mondo arabo unito, un mondo arabo laico e moderno, la cui capitale sarebbe stata creata, nuova fiammante, in un luogo da concordare, tra il Nilo e il Tigri. Questo mi diceva Aflaq, visionario panarabista laico, quel giorno, in una Bagdad ancora presidiata dai carri armati. E io gli chiedevo, insistente, con autentica curiosità, dove avrebbe costruito la capitale, della quale non sarebbe mai stata posata neppure la prima pietra.
Fu lo stesso generale Aref a raccontare come si era svolto il colpo di Stato. Virgilio Lilli ed io lo incontrammo in una caserma e gli parlammo a lungo. L'uomo era svelto. Loquace. Vanitoso. Meglio non averlo per amico.
Cinque anni prima, il 14 luglio ‘58, era stato lui, allora un colonnello di 37 anni, a occupare con il suo reggimento i punti strategici della capitale, e ad annunciare la fucilazione di re Feisal, appartenente alla dinastia Hascemita (un tempo custode della Mecca e di Medina) e della sua famiglia nel giardino del palazzo reale. Il generale Kassem era arrivato a Bagdad più tardi con le sue truppe, per decretare la fine della monarchia e proclamare la repubblica, della quale sarebbe diventato il presidente. Nel ‘63 Aref aveva ripetuto l'impresa scalzando dal potere Kassem. Era stata la rivolta (o il tradimento) del figlio, del compagno d'armi, dell'amico. I due soldati si conoscevano bene. Chissà quante volte si erano chiamati fratelli, come usa da quelle parti. Il dialogo finale, che Aref ci riferì con candore, era avvenuto per radio.
Kassem era circondato nel suo rifugio, non aveva più la forza per sventare il colpo di Stato, sapeva di non avere via di scampo. Chiese allora di parlare con Aref, e Aref acconsentì. Non poteva rifiutare un colloquio al protettore di ieri. Ma non andò oltre. Kassem gli chiese subito di concedergli la vita; e lui rispose senza indugio che era spiacente, non poteva risparmiarlo. Vivo avrebbe continuato a rappresentare un pericolo. Si scusò e ordinò di bombardare il rifugio.
Pochi mesi dopo il colpo di Stato Aref si liberò degli alleati del partito Baas che l'avevano aiutato nel complotto. Li cacciò dal potere. Non pochi di loro persero la vita, come era accaduto ai comunisti pochi mesi prima. Tra i militanti del Baas delusi c'era un giovane sconosciuto con un grande e tragico avvenire. Il suo nome era Saddam Hussein. Era esule al Cairo ed era rientrato in Iraq, insieme ad altri compagni, quando Aref aveva preso il posto di Kassem. Anche Michel Aflaq fu deluso, ma continuò ancora per anni a operare in favore di un regime laico panarabo. Lui era siriano ma puntò spesso sull'ala irachena del partito che era in contrasto con l'ala siriana. La sua lunga vita politica fu ritmata da altre speranze e delusioni.
Era nato cristiano, greco ortodosso, e si era ispirato con fervore al "personalismo" del filosofo Emmanuel Mounier. Il quale tendeva a una sintesi tra cristianesimo e socialismo. Ma alla fine, dopo aver tanto sognato un mondo arabo laico, si convertì all'Islam. Nell'89, quando morì, Michel Aflaq era un musulmano devoto.
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La genialità dell'Egitto è limpida, come la luce sull'Alto Nilo, ed è volentieri pacifica, tollerante. È serena, se non proprio tranquilla o bonaria. Questa natura ha contribuito, per secoli, a mantenere saggio e vivo l'Islam portato dai cavalieri di Amr Ibn el<\->Ass, arrivati dallo Yemen (nel 640 d.C.), appena qualche anno dopo la morte del Profeta. A turbarlo, ad agitarlo sono state soprattutto le forze venute da fuori. L'ottimismo della civiltà del Nilo e l'antica e profonda unità nazionale del paese gli hanno dato qualità sconosciute in tante altre contrade musulmane. Nei frequenti soggiorni in Egitto leggevo Louis Massignon (l'erudito e appassionato "Lawrence francese"), il quale contrappone la dolcezza dell'Islam dell'ulivo, sul quale soffia l'aria del Mediterraneo, dove si getta il Nilo, alla durezza dell'Islam delle palme, i cui fiumi si gettano nel Golfo e nell'Oceano.
Bastava alzare lo sguardo dal libro di Massignon, e rivolgerlo al Nilo che scorreva quieto sotto la mia finestra, per trovare una conferma a quelle parole. Oggi il viaggiatore frastornato dal rumore e aggredito dall'inquinamento del Cairo può trovare piuttosto bizzarre, improprie, queste annotazioni. Ma esse riguardano altri tempi, e comunque non si riferiscono alla superficie delle cose.
Pur non essendone il motore, per generazioni e generazioni l'università di Al<\->Azhar, al Cairo, è stato il centro del pensiero e dei riti dell'Islam universale.
 

Conservatori e innovatori vi si sono affrontati, e vi si affrontano. I fulmini dei primi colpirono Muhammad Abduh, razionalista dell'inizio del Novecento, quando sosteneva che è più vicino alla verità chi cerca e sbaglia di chi segue ("come un montone") le vecchie strade per non cadere in errore. Hanno suscitato sdegno e rimproveri coloro che, come Ali Abdel-Razek, incitavano a separare politica e religione. Negli Anni Sessanta si poteva incontrare Taha Husayn, lo scrittore cieco dall'infanzia, che fustigava il conservatorismo dei suoi maestri e veniva puntualmente accusato di apostasia. Alla tradizione degli innovatori, che risale molto in là nella storia, al Medio Evo e oltre, sulle sponde del Nilo si è contrapposta, è vero, una tradizione fondamentalista assai meno illuminata. I Fratelli Musulmani vi sono nati, a esempio, nel 1928, per iniziativa di un giovane maestro elementare di Ismailia, sul canale di Suez, di nome Hassan el-Banna. El-Banna fu poi ucciso dalla polizia di re Faruk: ma ancora oggi i principi della sua confraternita servono da base ideologica a tutti i movimenti fondamentalisti. Principi facili da riassumere in una sintesi, che resta tuttavia incompleta: il Corano è la sola costituzione possibile, e, nella vita pubblica come in quella privata, il solo riferimento accettabile è proprio il testo dettato nel VII secolo dall'arcangelo Gabriele al Profeta. Su questa affermazione sono sorte tante scuole di pensiero, più o meno integraliste, più o meno liberali.
Il nasserismo trionfava in Egitto quando vi arrivai per la prima volta. Alla partenza Georges Henein mi aveva messo in guardia. Era un poeta e, prima d'essere un liberale egiziano in esilio in Europa, era stato surrealista in Egitto. Insomma, era sempre stato un laico e apparteneva a quella straordinaria società cosmopolita del Cairo e di Alessandria che il nazionalismo arabo, e in particolare il nasserismo, ha ucciso, soppresso, privando l'Egitto di un patrimonio di valore inestimabile, e comunque irrecuperabile. Georges voleva essere sepolto nel cimitero degli stranieri al Cairo, che un tempo, all'ingresso, aveva una lapide dedicata a Giordano Bruno. Credo sia stato accontentato. Georges era un cristiano copto e sua moglie, Bula, era musulmana. Quando s'abbandonavano alle confessioni, o alle nostalgie, lasciavano intendere che Lawrence Durrell s'era ispirato anche a loro per i personaggi dei suoi quattro romanzi alessandrini. Georges e Bula erano discreti. Nonostante li avesse costretti all'esilio, e li avesse privati dei loro beni, non mi dissero mai che Nasser era un dittatore di cui non ci si doveva fidare. Mi invitarono a fare attenzione: "Non cadere nella trappola in cui cadono tanti stranieri". Il nasserismo era in effetti una forma di nazionalismo che poteva apparire corroborante in un antico paese decadente e ansioso di riemergere, dopo le umiliazioni coloniali, quale era l'Egitto.
Era un nazionalismo che vedeva nel socialismo, un socialismo arabo, la sola via possibile alla modernità. La corrente innovatrice religiosa favoriva il regime. Ma, dicevano George e Bula, più che modernizzare l'Islam, il colonnello Nasser vuole islamizzare la modernità. La prospettiva faceva rabbrividire i miei due amici, allora ingiustamente inascoltati.
Gli avvenimenti avevano spinto Nasser a perseguitare i Fratelli Musulmani, e a giustiziarne un certo numero. Tra questi il prestigioso teorico della confraternita, l'avvocato Abdelkader Auda. Il quale andò incontro alla morte recitando i versetti del Corano, nella prigione di Sayeda Zeinab. Ad aprire le ostilità non erano stati i "liberi ufficiali" che avevano preso il potere nel ' 52, mandando in esilio re Faruk. La loro svolta modernista era stata accentuata, accelerata, dalle 9 pallottole sparate contro il loro capo, Gamal Abdel Nasser, ad Alessandria, da un affiliato alla confraternita. L'attentatore fu condannato a morte insieme ai complici, tra i quali appunto l'avvocato Auda. Il nasserismo era in tutti i modi allergico ai bigotti. Raccontava Jean Lacouture, allora corrispondente di France Soir dal Cairo, che, nel '55, lo sheik Tag, vecchio rettore di Al-Azhar, aveva fatto un giorno l'apologia della poligamia, sostenendo che bisognava tener conto degli "incontenibili desideri dell'uomo quando sua moglie è indisposta". La reazione della stampa nasseriana, e probabilmente dello stesso Nasser, era stata immediata: il rettore di Al-Azhar avrebbe dovuto enfatizzare anche l'antropofagia, nell'eventualità d'una penuria di carne di montone.
Il nasserismo naufragò nel giugno del '67, durante la Guerra dei Sei giorni. Nasser sperava di cancellare la sconfitta araba del '48, dalla quale era nato lo Stato d'Israele e in seguito alla quale era defunta la monarchia egiziana, e di quella successiva del '56, rappezzata dagli americani che avevano ordinato agli israeliani di ritirarsi dal Sinai. Ma il terzo conflitto s'era concluso con un'altra umiliazione, più grave delle precedenti. Perché nel giugno '67 gli arabi si sentirono sconfitti, più che dalla forza militare di Israele, dalla modernità che Israele rappresentava ai loro occhi. Una modernità che il nazionalismo e il socialismo di Nasser non avevano saputo realizzare. Fu un avvenimento d'una portata storica, non solo per l'Egitto. Fu come se con l'illusione creata da Nasser crollasse una diga.
L'islamismo dilagò sulle sponde del Nilo e nell'universo musulmano. Islamismo non significa solo terrorismo o estremismo. Il termine s'addice senz'altro al movimento dei Fratelli Musulmani (perché il suo obiettivo è appunto di creare un sistema basato sui valori islamici) e alle sue ramificazioni via via estesesi a tanti paesi. Dopo la sconfitta del '67 e poi la morte del nasserismo, e dello stesso Nasser, la confraternita ha riacquistato una notevole forza d'attrazione. Le si è spalancato davanti il vuoto lasciato dal nazionalismo e dal suo additivo socialista. Le si è formata attorno una nebulosa d'individui, soprattutto intellettuali, studiosi di teologia ma anche matematici, medici, chimici, fisici, ansiosi di trovare un'alternativa alla fallita esperienza nasseriana. Le scienze esatte, più degli studi umanistici (troppo inquinati dall'occidentalismo), hanno fatto da sfondo alla ricerca di modelli sociali ispirati ai principi dell'Islam. Questa ricerca non ha tuttavia avuto come sbocco obbligato l'estremismo e il terrorismo. Essa ha favorito spesso la nascita di correnti riformiste. Ne è la prova il fatto che oggi molti movimenti islamici rifiutano il terrorismo di Bin Laden. Ma è vero che negli anni Settanta sono sorti movimenti più radicali, destinati al terrorismo. Ad esempio la Gamà'a Islamiya o il Jihad.
In Egitto sono stato testimone di tanti avvenimenti corali: le svolte sempre orchestrate e retoriche del regime nasseriano; l'inaugurazione della colossale diga di Assuan che ha cambiato il sistema idraulico millenario; la Guerra dei Sei Giorni e quella "d'usura" che continuò per anni lungo il Canale di Suez; la morte e gli imponenti funerali di Nasser nel '70; la Guerra del Kippur tre anni dopo; lo straordinario viaggio di Sadat a Gerusalemme nel '77; il suo assassinio e i suoi freddi, glaciali funerali nell'81. Tutti questi eventi, che hanno avuto come protagonista un popolo emotivo incline all'esaltazione ma non al fanatismo, restano vivi nella mia memoria satura di vecchio cronista. Ma quel giorno del giugno '67 in cui Nasser dette le dimissioni, addossandosi la responsabilità della fulminea disfatta, e milioni di cairoti si riversarono per le strade implorandolo di restare, il dramma raggiunse un'ampiezza e un'intensità tali che ancora oggi, ripensandoci, mi lasciano senza fiato. Non mi era mai accaduto di sentire le emozioni di un'imponente massa di uomini e donne come se fossero quelle d'un solo essere umano, del quale ascoltavo i palpiti con l'orecchio accostato al suo cuore.
Ebbi questa sensazione quando nella notte attraversai una parte della città buia, scavandomi un varco nella folla silenziosa che aspettava la risposta del raìs. La gente sentiva che eri uno straniero e non opponeva resistenza, s'apriva quasi con dolcezza, lasciandoti entrare in quella che era in fondo l'intimità d'un popolo ferito. Avevo seguito per giorni, sul lungo Nilo, l'arrivo dei brandelli dell'esercito sbaragliato nel Sinai dai soldati del generale Dayan: camion carichi d'uomini stralunati, mezzi corazzati isolati che davano l'impressione d'aver smarrito la strada. Avevo immaginato la collera, la rabbia, la voglia di rivincita, dopo lo smarrimento: e invece ci fu quell'invocazione a Nasser di restare, perché se se ne fosse andato la disfatta sarebbe stata ancora più pesante. Era l'agonia di un'illusione.
Nasser esaudì la folla; forse era stato lui stesso il regista della propria rielezione plebiscitaria; comunque restò al potere; morì tre anni dopo, d'infarto, dopo un agitato incontro con presidenti e monarchi arabi riuniti al Cairo per discutere di un'altra bruciante sconfitta. Quella dei palestinesi, a Amman, in Giordania, dove Arafat aveva tentato invano di mantenere l'Olp e i suoi fedayn, ormai troppo ingombranti e aggressivi per re Hussein. Hussein era riuscito a cacciarli dal regno, dopo averli massacrati.
Per una settimana avevo seguito, a Amman, lo scontro tra i beduini fedeli al sovrano hascemita e i guerriglieri di Al Fatah, creati dopo la disfatta del '67 e diventati i simboli del nuovo onore arabo e palestinese. La conclusione non era stata gloriosa. Il "settembre nero" del '70 fu una sanguinosa rissa tra arabi. I fatti di Amman contribuirono a spezzare il già fragile cuore di Nasser. Da Amman, via Beirut, ritornai sulle rive del Nilo per i suoi funerali, che furono grandiosi. L'islamismo era già nell'aria. Anuar el Sadat, il successore di Nasser, riallacciò sotto banco i rapporti con i Fratelli Musulmani, e fu ucciso da un integralista.
I miei amici egiziani, Georges e Bula, in esilio a Parigi, esultarono quando morì il nasserismo. Fu forse in quei giorni che Georges scrisse La passeggiata filosofica del dittatore. Una novella che comincia: "Una straordinaria dolce aria di disfatta aleggiava nella sera". Il seguito li amareggiò entrambi. Nel mondo musulmano, che restava la loro patria, i movimenti islamisti presero il posto dei movimenti nazionalisti. E ci fu poi il trionfo della rivoluzione iraniana, nel febbraio del '77. Ma ritornando da Teheran, dove avevo assistito alla partenza dello scià e all'arrivo di Khomeini, non trovai più Georges. Bula gli sopravvisse per poco. Non abbastanza per assistere all'imprevedibile seguito della storia.